Come si salva il giornalismo? Forse non ha bisogno di essere salvato: è vivo e vegeto e rimarrà tale finché ci sarà un pubblico con storie da raccontare. La domanda, probabilmente, è differente. Qualcuno potrebbe chiedersi: come si salvano i giornali? Nel loro concetto monolitico, e con il loro modello di business attuale, la risposta è: non si salvano. Bisogna cambiare.
Altri potrebbero chiedersi: come si salvano i giornalisti? Qui la questione diventa più interessante. “Si salvano” va inteso qui in forma attiva, non in forma passiva. D’altra parte, non si può sperare che una forma passiva si tramuti in azione.
In altre parole, come si salva la professione? Non c’è nulla di particolarmente originale, probabilmente, né ricette magiche: cerco di mettere in fila un po’ di buon senso e di lanciare qualche spunto per il futuro.
Appiattimento: la ricerca disperata di “volume” dei click ha appiattito drasticamente la varietà d’offerta del giornalismo online: le homepage dei giornali online finiscono per assomigliarsi tutte.
Ossessione social: la convinzione che il social debba essere utilizzato solamente come veicolo di traffico e non anche per personalizzare la propria testata, caratterizzandone la presenza su uno o più social network in maniera inequivocabile ha trasformato quella del social media manager in una “missione” sempre volta al volume, abbattendo la qualità del lavoro e facendo sì che si sottovalutassero la professionalità e l’esperienza giornalistica necessarie per gestire le pagine social di quotidiani o grandi testate.
Tempo e click: per scegliere di cliccare e per scegliere di dedicare il mio tempo a una lettura ho bisogno di avere fiducia nella fonte. Questo meccanismo, a lungo termine, è destinato a riguardare tutto il pubblico di lettori, che prima o poi ricomincerà a scegliere. Perché dovrei sprecare 3, 10 minuti, o magari anche 30 secondi che non mi torneranno più indietro? Che saranno perduti per sempre? Il clickbaiting è una pratica destinata a un lento ma inevitabile declino.
Modelli: tanto traffico, tanti inserzionisti. Modello vecchio, ma a lungo andare (nemmeno troppo lungo) destinato al declino per molte ragioni (e, no, non è solo colpa di AdBlock).
Giornalismo ad alto valore aggiunto: questa è una (la?) possibile
risposta alla crisi della professione. Offrire contenuti ad alto valore aggiunto, ben scritti, lunghi o meno lunghi, chiari, approfonditi quanto serve al lettore, interessanti, originali, vari, con rimandi alle fonti e ad altre possibilità di approfondire se si desidera. Pochi, ben scelti, ben rappresentativi del proprio lavoro. Contenuti per i quali un pubblico di lettori (anche esiguo ma sufficiente da rendere la cosa sostenibile) sia disposto a pagare una somma, anche minima.
Alta specializzazione (o se preferite, verticalizzazione, o ancora, nicchia): altra risposta alla crisi della professione, strettamente legata al concetto precedente. Fare qualcosa meglio degli altri, specializzarsi su un tema preciso, individuare la propria nicchia di lettori, offrire loro qualcosa che gli altri non offrono.
Comunità di lettori e servizio: se le due idee precedenti sono molto simili a quanto scriveva qualche mese fa Ben Thompson, questa invece è mutuata da Jeff Jarvis e da mie convinzioni sul ruolo del giornalista in società. Il giornalista, credo, dovrebbe essere una specie di tubo connettore fra le notizie e il pubblico: il protagonismo televisivo non ha aiutato questo ruolo, che di per sé non è affatto passivo né da sottovalutare, e che non implica per forza la pretesa di offrire ai lettori la verità assoluta scevra dalle opinioni. Il giornalista e il giornalismo dovrebbero ricordarsi che una delle loro missioni è offrire un servizio. Il che implica conoscere i propri lettori, rivolgersi a una comunità di persone che ha un’esigenza ben precisa, proporre qualità e coerenza con i fruitori del messaggio e con il servizio offerto.
Competenze: il giornalista dovrà acquisire per forza di cose nuove competenze. Saper fare video, foto, non vuol dire sostituirsi ai professionisti di altri settori ma vuol dire, all’occorrenza, essere in grado di arricchire i propri contenuti.
Collaborazione: la collaborazione con figure professionali diverse è fondamentale. Non c’è bisogno di arrivare a sogni utopistici come questo, probabilmente. Ma saper individuare altre figure che riescano ad arricchire il lavoro giornalistico è fondamentale.
Adeguamento: la normativa italiana sul lavoro giornalistico, l’Ordine dei giornalisti, dovranno in qualche modo adeguarsi alle necessità di una professione in forte mutamento.
Deontologia: nulla di quanto sopra può violare in alcun modo la deontologia giornalistica. Anzi, si può fondare sui più ferrei principi deontologici. È invece la ricerca continua del “volume” di click a favorirne la violazione o quantomeno a depotenziarne il valore.
Diversificazione: il giornalista dovrà imparare a diversificare la propria offerta. A personalizzarla, declinarla a seconda delle esigenze del pubblico cui si vuole rivolgersi. Questo non significa snaturare il proprio ruolo o scrivere falsità, sia chiaro. Significa solamente sapere a chi si parla e conoscere le esigenze di chi ci legge. È inutile, per esempio, proporre video a chi voglia, invece, leggere (l’ossessione per i video e i preroll che si vendono meglio della tabellare meriterebbe un capitolo a parte. È inutile anche proporre video che non diano al contenuto un valore aggiunto).
Volano di traffico: tutto questo non vuol certo dire che anche i grandi attori sulla scena editoriale si debbano dedicare soltanto a questo tipo di modelli. Ma che possano essere modelli da integrare al giornalismo SEO, destinato a non morire finché esisteranno i motori di ricerca, e al giornalismo social.
– There are no Journalist, Jeff Jarvis
– FiveThirtyEight and the End of Average, Ben Thompson
– The Stages of Newspapers’ Decline, Ben Thompson
– Newspapers Are Dead; Long Live Journalism, Ben Thompson
– 1,000 true fans, Kevin Kelly]
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