Ottimizzare le conversazioni (e le parole) è qualcosa che solo apparentemente non ha niente a che vedere con i motori di ricerca, ma che dovrebbe far parte di un processo culturale(*) che è sotto molti aspetti affine alla SEO.
La sovrabbondanza dei mezzi per raggiungere gli altri e la loro sostanziale – o perlomeno percepita – gratuità ha aumentato le informazioni scambiate anche a livello personale. In altre parole, siamo di fronte a un sovraccarico informativo anche per quanto riguarda lo scambio privato.
Fino a qualche anno fa, lo scambio che vedi qui sopra sarebbe stato impossibile su un telefono: avrei pagato i singoli messaggi e mi sarei ben guardato dallo scriverlo. La rivoluzione copernicana di questo tipo di conversazioni passa attraverso i primi strumenti tipo mirc, ICQ, C6, MSN, Skype. Poi si evolve sugli smartphone. E quindi si integra nell’esperienza in mobilità o da desktop.
iMessage, per primo, con il suo client per iOs che ti permette di usarlo anche con il computer, ha trasformato definitivamente lo scambio di sms in una chat.
Whatsapp è diventato un fenomeno di massa. Al punto che fioriscono i gruppi di ogni genere (per esempio, quelli dei genitori di una classe, quelli di un gruppo di lavoro e via dicendo). Gruppi che, di solito, travisano completamente la funzione di un sistema di messaggistica istantanea. Che non può in alcun modo diventare, a meno che non sia uno strumento evoluto e pensato per quello, un mezzo di lavoro.
Pian piano anche Telegram si popola di iscritti. E anche se non rischia di diventare popolare come Whatsapp, l’uso che ne viene fatto è simile.
Per tacer di Messenger, la applicazione di messaggistica di Facebook.
E delle mail, ovviamente. E dell’uso di tutti questi strumenti da parte di aziende che comunicano al loro interno in maniera ipertrofica, disfunzionale e (questo si pensa raramente) troppo costosa.
Nessuno di questi strumenti – usati come li usa la massa – può essere uno strumento di lavoro funzionale. E se anche riesci a usarli in maniera alternativa, va a finire che poi ti trovi immerso nel vortice delle notifiche di chi, invece, li usa come chat.
Il lavoro di ottimizzazione delle parole, quel parlare meno per parlare meglio che auspica Mafe De Baggis, dovrebbe passare anche attraverso una drastica riduzione dell’informazione che ci scambiamo personalmente. Non è un invito all’asocialità. Anzi. Il fatto è che il sovraccarico informativo anche nella conversazione è una naturale conseguenza delle tecnologie a disposizione – e, ripeto, della loro gratuità percepita.
Questo fa sì che non selezioniamo più le informazioni (tanto, che ci costa scriverle e inviarle?), non misuriamo più le parole, ci inondiamo di messaggi sui sistemi più vari e non facciamo che affaticare ulteriormente il nostro lavoro – soprattutto se siamo lavoratori dell’informazione – e forse anche le nostre vite private.
Per uscirne bisogna fare delle scelte, anche drastiche. Personalmente, per esempio, ho disinstallato Whatsapp e Messenger dal mio smartphone e sto cercando di accordarmi con le persone con cui ho rapporti lavorativi per ricondurre lo scambio di lavoro a dimensioni e sistemi più consoni.
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