In due pezzi (uno su Gli Stati Generali, l’altro su Che Fare), Andrea Signorelli ha fatto un bel quadro di gran parte delle possibilità offerte dall’editoria online. Modelli che l’Italia sembra voler sistematicamente ignorare, con spocchia oppure con provincialismo, o ancora con una visione estremamente limitata e sul breve periodo, senza il coraggio di provare a guardare oltre. O con tutte queste cose insieme.
Ci sono almeno un altro paio di esempi che andrebbero raccontati e aggiunti alla bella panoramica offerta da Andrea. C’è Monocle, per esempio.
Monocle è nato nel 2007, fondato da Tyler Brûlé ed è l’esatta incarnazione di quel che scrive proprio Signorelli in questo passo:
da quale strada passa la salvezza economica dei reportage, delle inchieste e dei siti che su questo puntano. Il crowdfunding o i mecenati? Le versioni premium per pochi o le donazioni? Il merchandising o l’organizzazione di eventi? La risposta, pur senza possedere nessuna sfera di cristallo, potrebbe essere: un mix di tutto questo.
Monocle ha un sito (il cui modello è un misto: alcuni pezzi si possono leggere liberamente, altri sono soggetti a pagamento o sono leggibili se si è abbonati), due riviste cartacee (Monocle, che esce in 10 numeri all’anno, e The Forecast Monocle, un numero l’anno) per abbonati o in vendita in edicola, una ricca produzione video, un palinsesto radiofonico 24 ore su 24. Pubblica una serie di guide turistiche, organizza eventi, ha locali e negozi (anche online), fa merchandising, non disdegna il cosiddetto native advertising e ha ovviamente inserzionisti pubblicitari. Definito da Harry Forestell (giornalista di CBC News) come un «meeting between Foreign Policy and Vanity Fair», come scrive Wikipedia, si occupa di lifestyle (nell’editoria classica si direbbe che è declinato al maschile), viaggi, affari, politica e geopolitica. Ed è proprio bello da vedere e da leggere, fra le altre cose.
Poi c’è questo, che si chiama Delayed Gratification ed è un esempio di cosa si può fare con lo slow journalism. Mi ci sono imbattuto nel corso di una serie di ricerche per questo piccolo progetto che si chiama Slow News.
Delayed Gratification ha una filosofia diametralmente opposta a quella del giornalismo online nostrano (ma anche a quello di Buzzfeed e simili, per dire). Cerca di costruire solo ed esclusivamente valore.
Come funziona? C’è un sito, dove si presenta il progetto e un blog, con contenuti free e con una serie bellissima di infografiche. Poi c’è la rivista. Un trimestrale da 120 pagine, in vendita numero per numero oppure con abbonamento.
La filosofia alla base del progetto è spiegata qui: meglio dire le cose giuste che dirle per prime («Invece di cercare disperatamente di battere Twitter», si legge sul sito, «ritorniamo ai valori che vogliamo per il giornalismo: contesto, analisi e opinioni di esperti»); investimento nel giornalismo sul campo; racconto delle storie quando sono finite, senza seguire per forza di cose l’agenda delle breaking news che, troppo spesso, lasciano le storie incompiute; grazie al fatto che non c’è uno spazio infinito da riempire, si sfugge dalla trappola delle speculazioni, delle congetture, di tutto ciò che generalmente fa parte delle all news, per capirci. Lo Slow Journalism, dicono i signori di questo bel progetto che esiste dal 2010, è l’antidoto alla deriva del giornalismo che spesso si trasforma nel copia-incolla di comunicati stampa, nell’advertorial (o se preferite: marchette. Molto spesso ci si riduce a questo), nel cosiddetto churnalism. Perché lo Slow Journalism è: «copertura delle notizie intelligente, curata, non partigiana, pensata per ispirare e informare».
Entrambi i modelli sono vivi e vegeti, e in crescita. E dunque sostenibili.
Ci vuole un po’ di intraprendenza per uscire dalle trappole dell’online, dalla schiavitù nei confronti di Facebook e di Google (che vanno utilizzati sfruttando le opportunità che offrono all’editoria e al giornalismo online, ma non devono dettare l’agenda. In altre parole, se si vuole fare i “generalisti”, bisogna saper essere social e saper fare SEO per ottenere volume “di qualità”, senza ridursi a dipendere dall’uno o dall’altro o da entrambi, ma costruendo il valore di cui sopra); per fuggire dal clickbaiting; per offrire buoni contenuti ai propri lettori, che poi vorranno tornare. E faranno traffico. E saranno importanti per gli inserzionisti. E saranno anche disposti a pagare (magari poco, ma in tanti) per sostenere un’editoria che amano. Ci vuole intraprendenza e una propria visione chiara del futuro e di cosa si vuole essere per uscire dalla trappola che porta a pensare che il giornalismo sia morto e che valgano solo tette e gattini.
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