Nel mondo del giornalismo l’ultima moda è la post-verità. Come dire: dopo aver passato anni a usare etichette di ogni genere ed esserci accorti a più riprese che sono sbagliate come tutti i modelli rigidi di interpretazione del mondo, come reagiamo all’ecosistema che ci sta sfuggendo di mano? Con un’altra etichetta. Sbagliata.
Di chi è la colpa se ci sono le fake news? Di Facebook?
No. La colpa è del modello di business dell’editoria che insegue quello dei social. La ricerca ossessiva di click – se preferite, di volume anziché di valore. Di lettori dimenticati. Di quel valore aggiunto come servizio offerto che non viene considerato – porta con sé una serie di conseguenze deteriori.
- la velocità, oggi diventata del tutto inutile per fare buon giornalismo (e in alcuni casi addirittura dannosa). Il “buco”, oggi, è dire il falso.
- gli articoli verosimili e non verificati
- le “colonnine di destra”
- il disinteresse per le persone
- il disinteresse per il giornalismo stesso
- la tossicità delle news
- la svalutazione dei marchi giornalistici
- la perdita di identità editoriale (prova a distinguere le condivisioni su Facebook da parte di testate diverse)
- l’uso indiscriminato dei social a peggiorare la qualità dell’ecosistema
- la partecipazione al sovraccarico informativoTutto questo non esisterebbe se l’unica metrica di interesse non fosse quella del click.Finché non ci sarà il coraggio di cercare strade alternative è inutile puntare il dito contro i social mentre passiamo il tempo a guardarci l’ombelico convinti che raccontare quest’azione quasi onanista sia soddisfacente anche per chi ci legge.Il problema è il modello di business sbagliato. Alternative ce ne sono.
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