Il posizionamento sui motori di ricerca è stato utilizzato dal giornalismo nella maniera più basica possibile. Ovvero: per portare traffico sui siti, in ottemperanza al modello di business che vede nel volume, nella quantità, un valore che invece all’atto pratico non c’è.
Quello che si può dire nel 2019 è che non è cambiato molto rispetto a quando, nel 2015, ho scritto per la prima volta questo pezzo, che ora aggiorno: i giornali online utilizzano la SEO più che altro per dragare traffico sui propri siti. In alcuni casi vedono Google come un nemico – perché aggrega su Google News – e non pensano a utilizzarlo per la parte di convenienza specifica di cui ancora possono godere. Che non è portare traffico sui siti informativi. Ma è, piuttosto, portare traffico qualificato. Di persone, cioè, altamente interessate ai contenuti giornalistici.
Perché mai un sito informativo dovrebbe contenere al suo interno pezzi tipo “come vedere la Serie A in streaming”?
Ad ogni ricerca su Google corrisponde un’intenzione. Se cerco “come vedere la Serie A in streaming” non sto cercando grande giornalismo.
Se su un sito di giornale pubblico un contenuto simile, non faccio che svilire, sul medio-lungo periodo, il brand, la testata.
La SEO è uno strumento relazionale. I giornali potrebbero e dovrebbero usarlo per consolidare le relazioni con i propri lettori e le proprie lettrici abituali e per cercare di stringere altre relazioni con chi non conosce ancora quella certa testata ma esprime su Google un bisogno, una richiesta d’informazioni che quella testata, coerentemente con il proprio posizionamento, è in grado di offrire.
Anche da questo tipo di approccio si comincia per migliorare l’ecosistema digitale.
La SEO per il giornalismo nel 2016
Giornalismo SEO è un connubio che potrebbe fare inorridire molti. Ma soltanto ad una lettura superficiale e senza alcun approfondimento. Che sia un tema poco esplorato, in Italia, lo dimostrava (ironicamente) una ricerca su Google. All’estero le cose vanno molto diversamente (guardate un po’ la SERP in inglese, per esempio, cercando seo journalism: il primo risultato è la BBC). E il fatto che sia poco esplorato la dice lunga su quanto sia stato capito male, il concetto, dalle nostre parti.
Sul tema ho impostato un percorso formativo e offro anche consulenze o corsi SEO personalizzati. Nel video, invece, una sorta di “condensato” del corso: un’ora (una specie di maratona corsa nel tempo di una gara di 100 metri piani con partenza lanciata) all’International Journalism Festival 2016
Infatti, nei pochi articoli che si trovano online in italiano appaiono definizioni amene tipo «il Seo […] racchiude tutti quei “trucchetti” che permettono ai contenuti del proprio sito, che sia l’edizione online di un quotidiano cartaceo o un semplice blog, di posizionarsi meglio sui motori di ricerca».
«Trucchetti» la dice lunga, no? Ma non è così. La SEO non è affatto un insieme di “trucchetti”.
Non si terrorizzino i puristi del giornalismo, per carità. Anzi, quelli di loro che non si vogliono capacitare di questo fatto, che la SEO sia importante, si facciano bastare le parole di Martin Asser, digital editor della BBC Arabic Service quando dice:
«It’s not about abandoning good journalism in favour of writing-by-numbers».
Si noterà, scorrendo la breve bibliografia offerta in calce a questo pezzo, che le citazioni di articoli esteri sono quasi tutte molto datate. Questo perché all’estero il dibattito non ha più senso: è già dato per assodato da anni quello che qui si vuole rifiutare o non vedere.
Qui non si avvalorano, per capirci, le operazioni che portano a fare SEO con titoli tipo Belen Rodriguez nud*, come curare le unghie o amenità del genere. Né si pensa che il solo valore aggiunto di un articolo online sia il posizionamento sui motori di ricerca. È tutto il contrario.
Ho già spiegato cosa significhi fare SEO oggi, secondo me, e come si debbano vedere gli eventi come keyword. Non è una fantasia, né un’ossessione. Semplicemente, è una constatazione che deriva in primo luogo dal buonsenso, in secondo luogo dall’osservazione empirica e, finalmente, da dati numerici.
Nello studio How Millennials Get News: Inside the habits of America’s first digital generation, condotto da the American Press Institute e the Associated Press-NORC Center for Public Affairs Research quando si chiede ai millennials quale sia il loro modo per approfondire le notizie, il risultato è molto chiaro. Al primo posto, domina, incontrastata, la risposta motori di ricerca.
Diciamoci la verità: è una cosa che può stupirci? Certo che no. È assolutamente ovvio. E se lo fanno i millenials, allora dobbiamo saperli raggiungere e capire come e perché lo facciano.
Fin dal 2010 ci si chiedeva se la SEO fosse nemica o alleata del giornalismo. La risposta, per quel che mi riguarda, è ovvia da sempre: è un’alleata preziosa e potentissima, a patto di capirci qualcosa.
È un’alleata perché, se si riesce a convogliare la massa di coloro che utilizzano i motori di ricerca per approfondire (insisto molto sul termine) sulle proprie pagine, e se queste pagine rispondono correttamente e in maniera approfondita alle domande di chi ha digitato su Google, allora si otterrà traffico (cioè: volume. Molto caro agli inserzionisti e pure agli editori). Ma questo è solo il primo passo. Se quel traffico (che poi sono persone, non dimentichiamocelo mai) atterra su un contenuto di qualità, aggiornato, approfondito, che garantisce un’esperienza utente piacevole, interessante e completa, ci sarà una parte di queste persone che, piano piano, comincerà a inserire le pagine trovate fra i “preferiti”, ci tornerà, si fidelizzerà e diventerà, con il tempo community. Questo, sempre che si sappia prendersi cura dei propri lettori che sono la più grossa ricchezza di un giornalista e di un editore.
È un’alleata perché è uno stimolo: se un contenuto è ben posizionato su Google (facciamo due esempi che sono curati dal mio gruppo di lavoro redazionale in Blogo: Italicum e Jobs act) si dovrà aggiornarlo, renderlo approfondito, fare in modo che risponda alle domande del lettore in maniera completa. E dunque si genererà valore per sé e per gli utenti.
È un’alleata perché se accade qualcosa, è meglio essere nelle prime posizioni sui motori di ricerca per le parole chiave che probabilmente una massa di utenti cercherà per avere informazioni. È meglio, in altre parole, essere in prima posizione che non esserci. Dovrebbe essere una banalità, ma l’esperienza quotidiana mi insegna che non è così.
Ecco. Se si imparasse a vedere la SEO come un modo per attirare nuovi lettori e come primo di una serie di passi importanti per prendersi cura di lettori vecchi e nuovi, si farebbe un grande passo avanti.
Che ce ne facciamo di un ottimo contenuto che non legge nessuno? Poco o niente.
Quel contenuto deve sfruttare, online, tutte le possibili leve di traffico per ottenere il 100% delle sue possibilità. La SEO è una di queste leve (e se si tiene presente, mentre la si attua, che Google e i suoi colleghi motori di ricerca, esattamente come Facebook, non sono i nostri badanti, meglio ancora).
E il giornalismo SEO ha delle regole che, pensate un po’, sono anche alla base del buon giornalismo. Non ci credete?
Giornalismo SEO: le regole
Le regole d’oro da seguire per il giornalismo SEO sono molto, molto semplici. Bisogna inserire nel pezzo le parole chiave. Che sono, per esempio: i nomi dei protagonisti di una storia, i luoghi in cui questa si svolge, la collocazione temporale della medesima, il funzionamento della storia medesima (i come), le motivazioni (i perché).
Vi ricorda qualcosa, per caso? Se siete giornalisti e siete capitati su questa pagina (cercando su Google giornalismo SEO, oppure dal mio Facebook, non vedo molte altre possibilità), dovrebbe.
Perché non è nient’altro che la regola delle cinque W.
Pensate un po’: attaccare un pezzo con i concetti chiave che lo spiegano aiuta. Sia la comprensione del testo, sia il buon giornalismo, sia il posizionamento sui motori di ricerca.
Delusi? Spero di no. Penso anzi che questa semplice visione del rapporto fra SEO e giornalismo sia molto esplicativa del fatto che questi non siano trucchetti. Certo, poi c’è una componente tecnica che si deve accompagnare alla scrittura. Ma questo è un altro discorso, e comunque non è un trucchetto.
È una condizione necessaria. No, non ho detto necessaria e sufficiente. Ho detto necessaria.
(A scanso di equivoci: questo non significa, in alcun modo, che ci si debba rendere dipendenti dai motori di ricerca. Questo significa, semplicemente, che, noti i dati e la pratica, si deve sfruttare al meglio una delle principali fonti di informazione e approfondimento online, così come tutte le altre).
Giornalismo SEO: l’attacco
Fare SEO vuol dire anche fare bene un attacco: rispondere, cioè, alle famigerate 5W (e pure alla H) nelle prime righe. Perché quelle 5W non sono altro che parole chiave.
[Leggi anche:Search engine optimisation (SEO), Martin Asser, digital editor BBC Arabic Service.
Perché un giornalismo SEO di qualità premia tutti, di Andrea Signorelli su Gli Stati Generali
Seo, alleata o nemica del giornalismo?, di Redazione su LSDI
Giornalismo 2.0, non si vive di solo Seo, Emanuele Capone su Il Secolo XIX
A journalist’s guide to SEO, di Kevin Gibbons su Econsultancy
What impact is SEO having on journalists? Reports from the field, di Nikki Usher su Nieman Lab
How Millennials Get News: Inside the habits of America’s first digital generation]
Lascia un commento