Quali sono i limiti del giornalismo a proposito di video e foto che abbiano a che fare con la morte? Non mi riferisco, naturalmente, a quello che si trova sulle carte deontologiche, ma alla quotidianità, alla sensibilità personale, alle scelte che sono rimesse alla discrezionalità del singolo. Alla realtà che spesso supera la fantasia (e anche le carte deontologiche).
Ho letto molto, in questi giorni, a proposito della pubblicazione o meno del video dell’assassino della Virginia. In particolare, è interessante la conversazione fra Valigia Blu e Repubblica (nota: ci sono molti link, tutti da seguire, nella risposta di Valigia Blu): è positivo che si ingeneri un dibattito su queste tematiche, per quanto di nicchia.
Su Blogo, la testata online che dirigo, abbiamo deciso di non pubblicare il video, dopo una consultazione in redazione (durata pochissimo, a dire il vero). Eravamo tutti d’accordo. Ne ho scritto qui.
Se ne parla anche su un gruppo su Facebook di giornalisti (relativamente a questo pezzo di Antonio Rossano su Culture Digitali).
La notizia – Secondo molti, la notizia non era l’omicidio in sé, né la sua premeditazione, né la pianificazione, ma il fatto che l’omicidio sia stato filmato e poi pubblicato dall’assassino sui social network. È possibile che sia così, da un certo punto di vista: questo significa ammettere che se l’omicidio fosse avvenuto con modalità “tradizionali”, non sarebbe una notizia da taglio alto. È il caro vecchio esempio dell’”uomo morde cane”. Infatti, Razzi, nella sua risposta a Valigia Blu, scrive: «Il video (ripeto: non pubblicato integralmente) è la notizia (dovesse ricapitare, probabilmente non sarà più una notizia e quindi non lo pubblicheremo)».
Comprensibile punto di vista. Ma il fatto che la notizia sia ritenuta l’esistenza delle immagini, e non l’omicidio in sé, fa parte di un processo di spettacolarizzazione del giornalismo.
La sensibilizzazione – Per altri, invece, pubblicare questo tipo di video sensibilizza. e assuefazione che progressivamente fa perdere di valore e significato alle notizie. Duecento migranti morti in mare oggi non sono meno gravi di duecento morti tre anni fa. Eppure il tritacarne del mercato [il termine non è scelto a caso] giornalistico fa sì che ci si abitui facilmente a questo tipo di cose. Non mi sembra di vivere, dopo anni di società dello spettacolo applicata al giornalismo, in un mondo più sensibile all’altro.
No censura – C’è anche chi dice che pubblicare queste immagini sia necessario e giusto perché l’informazione deve essere libera. Ma il punto in gioco non è questo. Qui si parla di scelte, non di censura. Quel video si poteva reperire in ogni caso: era a disposizione di chiunque volesse vederlo per soddisfare la propria curiosità – qualunque fosse la sua origine.
Scelta imprenditoriale – Anche se da Repubblica negano che si sia pubblicato quel video per motivi legati ai click (o ad altre metriche, come ad esempio il tempo di permanenza), può essere una scelta quella di monetizzare anche su temi simili.
Ad un certo punto, nessuna delle grandi testate italiane aveva più il filmato pubblicitario davanti al video, per esempio. Meno male. Ma pubblicare questo video può far parte di una strategia a lungo termine per incrementare il proprio pubblico.
Sinceramente non credo che sia così: ci sono fatti che basta raccontare e poi linkare alle fonti originarie, se si fa la scelta di non incorporare determinati materiali nei propri articoli. Quanto alla pubblicità: al NYT per esempio hanno una tag per gli annunci pubblicitari che li rende invisibili in caso di tragedie (la scelta, ovviamente, è umana).
Le medesime considerazioni valgono anche per la foto di Aylan, il bimbo di 3 anni morto annegato mentre cercava di raggiungere Kos con un gruppo di migranti. La sua foto si trova ovunque (in merito, ecco l’editoriale di Calabresi che su La Stampa ha deciso di pubblicare la foto). Qui la differenza fondamentale è che il fatto non è “privato” (come un omicidio, anche se mandato in onda in diretta) ma è un evento che fa parte di un fenomeno più ampio. In questo caso, però, mi sembra valgano le medesime considerazioni di cui sopra.
«Nascondervi questa immagine significava girare la testa dall’altra parte, far finta di niente, che qualunque altra scelta era come prenderci in giro, serviva solo a garantirci un altro giorno di tranquilla inconsapevolezza», scrive Calabresi, annoverandosi fra la schiera di coloro che pensano, forse sperano di poter davvero sensibilizzare. Forse, in fondo, spero che abbia ragione lui. Ma non credo che sia così.
La conversazione prosegue anche sul gruppo Facebook Media, comunicazione e giornalimo.
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