Cambiare significa rendere diverso, trasformare. Significa diventare diverso da quello di prima, trasformarsi, passare da uno stato a un altro.
In nessun caso, mai, nella lingua italiana, cambiamento è sinonimo di miglioramento.
Lo diventa solamente in una retorica politica che lascia senza fiato, quando la trovi abbracciata ovunque. Lo diventa solamente in un ambito di marketing politico talmente violento e aggressivo da appiattire la logica e degenerare nel tifo.
Cambiamento è una buzzword. Una parola di moda. Di solito capita con gli anglicismi. Questa volta è una parola italiana, che bisogna tradurre per non tradire il senso delle cose.
Si può cambiare in meglio o in peggio. La storia dell’umanità è piena di cambiamenti in meglio o in peggio.
L’evoluzione non è necessariamente un processo positivo (ma il senso stesso di positività, su scala evolutiva, è rarefatto). Le specie mutano. Si estinguono. I miglioramenti, quando avvengono – come i peggioramenti – ci mettono generazioni, ere.
Smettiamola di considerare il mondo la fuori come un contenuto a cui mettere un like, smettiamola di usare a sproposito le parole. Un concetto relativo non può diventare assoluto: ciò che sembra un cambiamento positivo a me può sembrare un peggioramento a te, e viceversa.
Lo so bene – e lo sa anche Davide Mazzocco, autore di Propaganda Pop – che il cambiamento è affascinante, fa presa, ha appeal, è sexy. Per non farsi ingannare dagli usi spregiudicati e massivi delle parole bisogna ridurle, ottimizzarle, spremerle fino all’osso e recuperarne il senso.
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