Il giornalismo, per molti, forse troppi versi, agonizzante, è senz’altro sottoposto anche alla sfida dell’era dei social network. Si parla continuamente di possibilità di maggior visibilità per blogger e professionisti sconosciuti e spesso la visibilità diventa una specie di moneta di scambio per il lavoro, ma questa è davvero un’altra storia rispetto a quel che volevo scrivere. Si ignora che il giornalista oggi deve vere le competenze del mestiere, la freschezza del blogger, la rapidità del social, e che deve essere “curatore di contenuti”. Ma anche questa è un’altra storia.
Oggi volevo parlare di come è stata fatta quest’intervista, del modello di lavoro che si può implementare e di tutto quel che ne consegue.
La storia è semplice. Grazie a una gallery condivisa su Reddit, che mi ha segnalato Luca, ho scoperto questo blog su Sochi in cui si alternano voci istituzionali e propagandistiche a voci critiche. In particolare, il lavoro critico è guidato da Aleksandr Valov.
Gli scrivo in inglese, scopro che parla solo russo. Allora metto un annuncio su Facebook e chiedo se c’è qualcuno disposto a farmi una traduzione in russo. Ottengo il contatto di Sonia grazie ad Arianna, tramite lei riesco a comunicare con Aleksandr, che però è restio a rispondere a domande per iscritto: vuole fare solo al telefono. Le cose si complicano, ma un’amica di Sonia, Anna, fa l’intervista per conto nostro, telefonicamente, da Mosca.
E così riesco a pubblicare un pezzo che, altrimenti, non avrei mai potuto scrivere.
Di mezzo ci sono di sicuro alcune questioni “deontologiche”. Prima fra tutte, la fiducia. E’ ovvio che si debba avere fiducia nel “terzo” che si presta a fare da tramite, e che ci debba essere un rapporto di fiducia reciproca fra giornalista, traduttore (qui addirittura due), intervistato.
La garanzia di fiducia, però, non è solo un tacito accordo fra le parti in causa. Anzi, è tangibile: arriva proprio grazie al social network: nel proporre l’intervista definitiva pubblicata utilizzo un altro strumento a disposizione sui social network: il tag. Quando condivdo l’intervista su Facebook “taggo” pubblicamente, oltre al tramite, anche Aleksandr, che potrà se non altro, utilizzando per esempio Google translator, verificare, se ne avrà voglia, che il suo pensiero sia riportato in maniera conforme e, eventualmente, fare aggiunte, precisazioni, correzioni.
Questo livello di creazione di fiducia è una garanzia anche per il lettore.
E’ chiaro che si produca, in questo modo, un tipo informazione non strillata, non condensabile in 140 caratteri, non fruibile con estrema velocità (infatti, nell’intervista ad Aleksandr emerge una visione di pensiero critico complessa, che mette in evidenza anche i punti positivi della gestione russa dei giochi olimpici e delle infrastrutture, per capirci. Fatti salvi i punti negativi, come per esempio l’immenso sperpero di denaro). Ma non è affatto detto che non sia un’informazione viralizzabile, per esempio.
Ed è altrettanto chiaro che sia una via interessante per far recuperare nel lettore la fiducia in chi scrive. In tempi di monetizzazione anche del pensiero (quello dei presunti influencer) siamo proprio sicuri che la fiducia del lettore (il primo cliente di chi scrive e di chi pubblica una testata) sia priva di valore?
Insomma. Il social network è un’opportunità per il giornalismo. Ma non per la visibilità (fra l’altro, inutile ricordare ancora una volta come Facebook abbia stretto la cinghia rispetto alla quantità di “reach” che garantisce a chi pubblica contenuti propri sul social), né perché si viralizza tutto – sulla qualità delle notizie viralizzate tornerò più avanti.
No, perché fornisce un nuovo strumento di contatto e di lavoro al giornalista. E ricostruisce la fiducia.
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