Con Waiting For Gaza ho fatto un’operazione che non si dovrebbe fare mai. Ho reso pubblico un lavoro documentario incompiuto. Non è stato finito per questioni economiche, va detto senza troppi mezzi termini.
Perché ho deciso di metterlo online? Perché è un video di 29 minuti e 33 secondi che racconta uno degli aspetti della questione israelo-palestinese. Una questione che per decenni è stata banalizzata, affidata a una dialettica politica colma di slogan, allontanata dall’approfondimento e dal pensiero critico.
Oggi, con la diffusione massiva e intensiva dei social network, possiamo assistere a un duplice fenomeno.
Per la prima volta da quando Gaza, la Palestina, Israele, Hamas sono al centro dell’attenzione mediatica – al di là dei lampi della Freedom Flottilla e della tragica fine di Vittorio Arrigoni – le vicende di quelle terre così lontane eppure così tanto commentate (come se tutti ci fossero stati) emergono, grazie ai feed dei principali social network, con punti di vista che prima non si riusciva a cogliere.
Per esempio, Meri Calvelli e Abu Yazan – come molti altri – possono fare un lavoro di reportage dalla Striscia, pubblicare foto e video, rendere palesi i loro racconti. E dunque c’è il punto di vista non solo del più forte (Israele, che stigmatizza i razzi di Hamas), ma anche quello del più debole (quello che di solito non scrive la storia, e che magari non ha niente a che vedere con Hamas, ma semplicemente si trova sotto le bombe e muore).
E’ un inedito importante, senza ombra di dubbio, perché fa scricchiolare almeno un po’ l’arma della propaganda, il lavaggio del marchio di Israele, troppo spesso raccontato come stato senza macchia che deve solo difendersi (dall’altra parte, il racconto del Palestinese-vittima non ha fatto che nuocere alla causa medesima, venendo poi relegato a presunte istanze di sinistre extraparlamentari che da noi sono diventate tali solo perché il sistema elettorale italiota è una porcata – dicevasi porcellum, non a caso. E l’Italicum non è meglio –, ma questa è un’altra storia).
Il punto, però, è che questo tipo di informazione non embedded ma fortemente immersa nella realtà è solamente una percentuale minuscola rispetto a quel che si legge sui social network.
Il resto, il grosso, la massa è, ahinoi, uno schifo che si stratifica su uno schifo pre-eistente. Uno schifo veloce e melmoso di banalizzazioni, di slogan, storia studiata male (con i programmi che si fermano alla seconda guerra mndiale), di frasi ed effetto, di tifo, di citazioni riproposte senza verifica, di storie di terza, quarta, quinta mano che si modificano e si stratificano nella memoria collettiva, di cavalli di battagia propagandistici facilmente smontabili con una comunicazione più lenta, impossibili da scardinare alla velocità del like.
Questo è il contraltare – che a ben guardare sembra sovradimensionato rispetto a qualsiasi tentativo di racconto critico e analitico – del social network e della diffusione delle idee da un punto di vista “altro”. Il contraltare è soverchiante, massivo, deludente, deprimente. Divisi come curve da tifo, si susseguono le condivisioni pro-questo, pro-quello, immerse fra gattini, notizie “incredibili” (e praticamente mai verificate) e “shockanti” e altre robe demenziali.
Comunque, Wating for Gaza c’è. E’ online, e la sua durata fa si che si chiami fuori da chi non ha tempo, da un flusso che divora tutto, mastica, sputa via e dimentica. Ci vuole tempo, ma prima o poi le slow news diventeranno l’unica via per distinguersi.
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