Il futuro dei giornalisti è un tema importante e lo sappiamo bene.
Al New York Times lo sanno ancora meglio. E così si sono inventati questa meravigliosa teoria dei Particles come futuro dell’articolo. Al NYT hanno il NYTLab, per capirci. Che è il loro reparto di ricerca e sviluppo.
Cosa c’è di veramente nuovo nei Particles? Sicuramente l’impianto filosofico. L’articolo – dunque, non solo il giornale che perde il suo senso monolitico: addirittura il singolo articolo – come insieme di singoli elementi. Le particelle.
Particolati (se volessimo mantenere il gioco di parole angolofono potremmo coniare un neologosmo, particoli) al posto di articoli. Il singolo pezzo come composizione di varie informazioni: le particelle, o i quanti informativi, se vogliamo lanciarci anche nella fisica quantistica.
Alexis Lloyd scrive:
«Can you imagine if, every time something new happened in Syria, Wikipedia published a new Syria page, and in order to understand the bigger picture, you had to manually sift through hundreds of pages with overlapping information? The idea seems absurd in that context and yet, it is essentially what news publishers do every day».
È esattamente il concetto che propongo in Blogo quando parlo di aggiornamento della medesima pagina-articolo (si veda, a titolo esemplificativo il pezzo sulla riforma del Senato, che fra l’altro è ottimamente posizionato su Google).
Che senso ha scriverne un altro? Meglio aggiornare, limare, sistemare quello. Vale per tutte le storie “lunghe”, è quel che facciamo da tempo, su Blogo, con tutti i limiti del caso.
Il pezzo prosegue così:
«The Particles approach suggests that we need to identify the evergreen, reusable pieces of information at the time of creation, so that they can be reused in new contexts. It means that news organizations are not just creating the “first draft of history”, but are synthesizing the second draft at the same time, becoming a resource for knowledge and civic understanding in new and powerful ways».
Ecco. Leggerlo teorizzato è perfetto e fa tirare un sospiro di sollievo: bisogna identificare le parti delle singole informazioni che vanno bene “sempre” (nell’esempio della riforma del Senato, le “FAQ” su cosa cambia, salvo piccoli aggiustamenti) e capire come riutilizzarli in nuovi contesti. Si crea la prima bozza di una storia, ma al tempo stesso si lavora già sulla seconda.
E magari si può disporre di altre particelle, distribuite da altri giornalisti, da altri ediori.
In questo modo:
– si genera valore aggiunto
– si offre un servizio al lettore (alla comunità di lettori)
– si ottimizza il lavoro per i motori di ricerca
– si pensa all’esperienza utente e la si esalta
Non solo. Se si particellizza l’informazione in “quanti” che possono essere condivisi e riutilizzati, e se si ha l’accortezza di attaccare a questi “quanti informativi” le giuste etichette (fonte, autore, data, geolocalizzazione e via dicendo: i cosiddetti metadati, insomma) in modo che siano indissolubilmente legate all’informazione stessa, si esaltano anche la condivisione, la citazione corretta delle fonti, la liberazione del contenuto. E, sempre grazie a queste etichette, si supera anche il problema deontologico, perché ogni singolo pezzo di informazione si può far risalire facilmente alla fonte originaria. Non solo: si ottempera anche all’altro dovere deontologico del giornalista. Quello di aggiornare la notizia, se le condizioni sono cambiate (e di farlo autonomamente, senza aspettare “rettifiche”).
E si risponde anche al mai troppo lodato e vecchio comandamento di Jeff Jarvis: «Cover what you do best, link the rest» (solo, si sostituisce a “link the rest” le parole “embed particles”).
Questo significa, a mio modo di vedere, tre cose.
Primo: il giornalismo e i giornalisti sono molto lontani dall’essere morti. Se sapranno tornare a offrire servizi al loro pubblico – quello dei Particles è un modo – avranno vita lunga;
Secondo: il giornalismo richiede aggiornamento continuo, ricerca e sviluppo, supporto di un ottimo reparto tecnico che sia in grado di supportare e implementare le idee;
Terzo: non dimentichiamoci il lettore la fiducia. Come scrive Marco Dal Pozzo, sottolineando la necessità di rifondare un modello sociale prima ancora che di business. Come scriviamo nel manifesto di Slow News: senza la fiducia di chi legge, chi scrive non è nulla.
Alla fine, non c’è nulla di nuovo nella visione del NYT: c’è solo la capacità di analisi della situazione, di sintesi e di proposta di uno strumento che, applicando al meglio tutto quel che già sappiamo del giornalismo, sfrutta le opportunità offerte dal cambiamento in corso.
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