Primo: congelare la scena

Nel 2004 ho realizzato questo breve cortometraggio come saggio di fine anno per la Scuola di televisione RTI. Era il secondo anno di attività della scuola e io facevo parte della classe dei registi.

Alla fine del corso di studi ci venne chiesto di realizzare un filmato da 90″ [non da 60″, come mi ricordavo. La memoria fa strani scherzi] per raccontare qualcuno. Un personaggio, una persona, famoso o meno, poco importava.

Avere una durata così ristretta da rispettare è un po’ come cimentarsi con una forma brevissima di scrittura. Ma è anche un modo per allenarsi a rispettare i paletti. Come dice spesso un caro amico e collega, Raffaele Napoli, i paletti sono fondamentali per un lavoro creativo.

Non sono ostacoli come si potrebbe erroneamente pensare. Sono aree delimitate all’interno delle quali la creatività – che altrimenti, se lasciata a briglia sciolta, rischierebbe di strafare e creare giganti d’argilla  – può fare il suo dovere nel migliore dei modi. Risolvere problemi, ingegnarsi, creare mondi autosufficienti, avere idee sostenibili.

Nel 2004 ero molto affascinato da Luigi Tenco e dalla sua storia. Avevo letto “Luigi Tenco – Vita breve e morte di un genio musicale” di Aldo Fegatelli Colonna. Pensavo – e penso – che fosse veramente un genio musicale. E uno dei miei compagni di corso, un po’, a Luigi Tenco ci assomigliava. In più avevo il compito di girare anche il suo, di cortometraggio da 90″: lui era nella classe degli sceneggiatori e io avevo una telecamera, la SONY DCR VX-2000 già compagna di mille avventure. Avevo potuto permettermela, la mitica 2000, solo grazie al fatto che una persona conosciuta nella chat di Virgilio dall’improbabile nome di Superfighetto (sic) mi aveva consentito di acquistarla con uno sconto-dipendenti. Che all’epoca faceva proprio la differenza. È iniziato tutto lì, il mio lavoro con i video. E senza quell’aiuto di una persona che, fino al giorno di quell’acquisto, era una perfetta sconosciuta, non fosse altro che per gli scambi in chat fra due nickname, e anche possibile che adesso sarei un ingegnere. Ma questa è un’altra storia.

Quella di Tenco, come saprà il lettore che si dovesse imbattere in queste righe, è una storia tragica. E la fine del musicista resta ancora oggi in qualche modo avvolta dal mistero. Suicidio? Omicidio? Sta di fatto che, a giudicare dalle varie ricostruzioni e da documenti ufficiali si viene meno, nella fase immediatamente successiva alla morte del cantautore, a quello che dovrebbe essere il primo comandamento quando si arriva sulla scena di un crimine. Congelare la scena. Che significa che si dovrebbe impedire in ogni modo che si alteri lo stato dei luoghi e delle persone: le contaminazioni sono inevitabili, ma la polizia giudiziaria deve poter fermare – non è un caso se una delle operazioni di questa fase è proprio il rilievo fotografico – il contesto in modo che sia poi ricostruibile durante l’eventuale processo penale.

Avevo tutti gli elementi per lavorare e per raccontare Tenco non dovevo far altro che mettere insieme tutte le ipotesi, le posizioni del corpo, quelle dell’arma, i messaggi, le parole, le canzoni.

In un caldo pomeriggio di giugno del 2004 a Roma giriamo velocemente le poche inquadrature che mi servivano per realizzare la mia idea. Senza perdere troppo tempo per poi virarlo in montaggio, lo giro già in bianco e nero, per forza di cose. A che mi servivano i colori? A nulla.

Venne fuori così, dopo un paio di giornate al montaggio a limare, cesellare, studiare ogni singolo stacco e le dissolvenze (raramente ne avrei usate ancora, in seguito), il mio Primo: congelare la scena.

Primo congelare la scena

 

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